martedì 5 giugno 2007

La Fede e il sacrilegio

Car* amic* leggendo gli ultimi post mi sono un pò demoralizzato e allora ho fatto un capatina sul sito del buon, vecchio e caro p. Alberto Maggi e il mio umore è migliorato, spero che accada anche a voi dopo aver letto questo articolo. Qua e là ho videnziato dei passi che mi hanno colpito.
Piccola indicazione esegetica: quando si parla della prostituta in questo passo non si sta parlando di una persona in particolare o della categoria delle prostitute, ma in generale di tutti coloro che vengono considerati nel peccato, quindi per esteso anche noi omosessuali.
Gianni

La Fede e il sacrilegio

Fede e Religione
Nella religione ebraica, così come nelle altre grandi religioni, il rapporto con Dio era basato sull’osservanza di un codice di leggi che si riteneva sacro, in quanto proveniente dal Signore stesso.
Per sapere come comportarsi e conoscere se si era graditi o no a Dio, se si peccava o meno, l’Ebreo aveva pertanto come punto di riferimento la Legge, massima espressione della divina volontà, trasmessa al popolo attraverso Mosè (Es 19-24).
Questo sistema religioso, consolidato nei secoli, è giunto indenne fino al cambiamento avvenuto attraverso Gesù, il Cristo, l’uomo che gli evangelisti presentano come la piena rivelazione di Dio[1].

Gesù ha proposto agli uomini una nuova relazione con Dio, non più basata sull’osservanza della Legge, ma sull’assomiglianza dell’amore del Padre.

Per Gesù, il vero credente non è chi obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo[2]. Questo nuovo rapporto con la divinità è talmente speciale, che non ha potuto essere catalogato nella categoria “religione”[3], parola assente nei vangeli. Il “vino nuovo” di Gesù ha avuto infatti bisogno di “otri nuovi” (Mt 9,17), in quanto le strutture tradizionali della religione non erano adatte a contenere e ad esprimere la novità del suo messaggio.
Nella religione l’uomo si considera un servo e la divinità viene vista come un padrone, al quale sottomettersi e ubbidire. La nuova relazione con Dio, proposta da Gesù, non è più quella di un servo nei confronti del suo Signore, bensì quella di un figlio nei confronti del Padre. Un Padre che non chiede nulla agli uomini, ma che si fa dono per tutti. Questa nuova relazione prende il nome di “fede”.
Nella fede, la vita dell’uomo non tende verso Dio, ma parte da Dio e l’uomo non vive più per Dio, ma con Dio e come Dio.
Ed è proprio nella tensione tra la religione e la fede che si sviluppano le dinamiche evangeliche.
Nel linguaggio popolare si sente spesso dire che la fede è un dono di Dio, e in quanto tale molti si sentono esentati (“Beato tu che hai fede: il Signore a me non l’ha data!”), per cui il responsabile della fede non è l’uomo, ma Dio, una divinità capricciosa che ad alcuni dona fede abbondante, ad altri poca e infine a molti nessuna. Per altri poi la fede è una sorta di assicurazione contro gli infortuni (“Avevo tanta fede, ma poi mi è successo questo…”). Al primo rovescio della vita si perde la fede, o meglio si abbandona, perché si è vista inefficace e incapace di proteggere dalle avversità che l’esistenza a tutti fa incontrare.
Dai vangeli risulta che la fede non è un dono di Dio agli uomini, ma la risposta degli uomini al dono d’amore che Dio fa a tutti.
Un brano illuminante è quello della guarigione dei dieci lebbrosi narrata nel vangelo di Luca (Lc 17,11-18): Gesù guarisce dieci lebbrosi, ma di questi solo uno, un Samaritano, “tornò indietro lodando Dio a gran voce” (Lc 17,15). A tutti Gesù, presenza di Dio sulla terra, ha donato la guarigione, ma solo uno ringrazia. I dieci lebbrosi sono stati tutti guariti, ma uno solo è quello salvato. È l’aver preso coscienza del dono di Dio che l’evangelista definisce fede: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato” (Lc 17,18).
Nella religione l’uomo deve meritare l’amore di Dio, nella fede deve accoglierlo.
Con Gesù, l’amore di Dio non va più meritato per i propri sforzi, ma accolto come dono generoso e gratuito della misericordia del Padre. Il Dio di Gesù non considera i meriti degli uomini, ma i loro bisogni.
I criteri stessi del vivere religioso vengono ribaltati, e quel che agli occhi della religione è visto come sacrilegio, agli occhi di Gesù, il “Dio con noi” (Mt 1,23), sono espressione di fede. È lo stesso che presenta Luca nell’episodio della peccatrice e il fariseo (Lc 7,36-50).

Ospite sgradito
Gesù è stato invitato a pranzo da “uno dei farisei”.
I farisei erano un gruppo religioso laico caratterizzato dall’osservanza scrupolosa della Legge di Mosè. Per accelerare la venuta del regno di Dio, i farisei s’impegnavano a vivere quotidianamente tutte le prescrizioni richieste al sacerdote nel limitato periodo in cui prestava servizio nel Tempio (Lv 9-10; 21; 22,1-9). Da tutto il complesso di norme e osservanze, i farisei avevano ricavato trecentosessantacinque proibizioni e duecentoquarantotto precetti che imponevano dei doveri, per un totale di ben seicentotredici precetti da osservare. Questi numeri, secondo la simbolica farisaica derivavano dagli elementi che componevano il corpo (248) e dal numero dei giorni dell’anno solare (365): l’uomo ogni giorno doveva vivere nell’osservanza totale della Legge divina.
Inoltre, a tali prescrizioni i farisei aggiungevano la meticolosa osservanza del riposo del sabato, giorno in cui era proibito eseguire qualunque tipo di lavoro. I farisei avevano dedotto che c’erano trentanove lavori principali vietati (dal numero di lavori necessari per la costruzione del Tempio), suddivisi a loro volta in trentanove lavori secondari, per un totale di millecinquecentoventuno lavori proibiti. I farisei per questo loro particolare tipo di vita godevano di grande rispetto da parte del popolo e avevano fama di santità.
Gesù non considera costoro altro che dei commedianti (lett. ipocriti), i quali compiono le loro azioni per essere glorificati dagli uomini (Mt 6,2).

Fin dal primo contatto, i farisei si sono dimostrati ostili a Gesù.
La prima volta hanno sentenziato che bestemmiava (Lc 5,21), ritenendolo quindi passibile della pena di morte. Inoltre i farisei si scandalizzano perché i discepoli del Cristo mangiano e bevono con pubblicani e peccatori, categorie di persone ritenute immonde (Lc 5,30), e, pieni di rabbia nei confronti di Gesù, cercano di eliminarlo in quanto deride la loro fama di santità (Lc 6,7-11).
Con questi precedenti è chiaro che l’invito a pranzo da parte del fariseo non è un segno di ospitalità, ma un’insidia preparata ai danni di Gesù.
È questo il primo dei tre pranzi con i farisei ai quali Gesù è stato invitato.
Il Cristo non è un ospite accomodante: tutte le volte che è stato invitato a mangiare dai farisei ha mandato il cibo di traverso a quanti lo avevano ospitato (Lc 11,37-54; 14,1-24).
L’evangelista sottolinea che Gesù, “entrato nella casa del fariseo, si sdraiò a mensa” (Lc 7,36). Gli ospiti, com’era uso nei pranzi festivi, mangiavano sdraiati su dei divani posti circolarmente attorno a un basso tavolino, ove veniva posto il vassoio con il cibo.
All’improvviso, in questo pranzo nella casa del fariseo, accade l’inimmaginabile: “Ed ecco! Una donna, una peccatrice della città, avendo saputo che giaceva a mensa nella casa del fariseo, portò un vaso di alabastro di unguento…” (Lc 7,37).
Nei banchetti erano presenti solo gli uomini, il compito delle donne era di lavorare in cucina, luogo dove la tradizione le aveva da sempre relegate (vedi Marta, “tutta presa dalle molte cose da fare”, Lc 10,40). Ebbene, in questo banchetto, tenuto nell’abitazione del pio fariseo, dove non entra nulla d’immondo e dove c’è un controllo maniacale che tutto sia puro e purificato[4], s’introduce una nota peccatrice di quella città.
“Non avvicinarti alla porta della sua casa”, intimava la Scrittura (Pr 5,8) riguardo alle prostitute. Ma qui è la prostituta che entra in casa del fariseo.
Non solo entra una donna, il che già era motivo di scandalo, in quanto le femmine, per via delle mestruazioni erano considerate perennemente in stato d’impurità (Lv 15, 19-30), ma una prostituta, insozzando così con la sua presenza tutta la casa. Ma non basta, la donna entra con in mano le armi del mestiere: un vaso di unguento, l’olio profumato con il quale massaggiare i clienti (Ez 23,41; Pr 7,17).
Questa donna è l’unica meretrice protagonista di un incontro ravvicinato con Gesù nei vangeli. Il personaggio è anonimo e in quanto tale, rappresentativo di quanti si specchiano nella sua condizione[5].
Per la comprensione dell’episodio e del comportamento della donna, occorre ricordare che nella cultura del tempo difficilmente la prostituzione era una scelta. Raramente una donna era spinta a quel mestiere dalla fame o dalla miseria, la prostituzione era il più delle volte la drammatica conseguenza del nascere femmina.
La nascita di una bambina era infatti considerata una disgrazia per i genitori. Una femmina è “un’inquietudine segreta, la preoccupazione per lei allontana il sonno…” (Sir 42,9) dichiara la Bibbia, e “Il mondo non può esistere senza maschi e senza femmine, ma felice colui i cui figli sono maschi e guai a colui i cui figli sono femmine”[6], sentenzia il Talmud.
Era considerato normale, quando in una famiglia c’era già qualche bambina, abbandonare la neonata ai margini del villaggio la notte stessa della sua nascita[7]. Se sopravviveva agli animali randagi, la neonata era raccolta dal mercante di schiavi che l’allevava e la rivendeva poi come prostituta quando aveva tra i cinque e gli otto anni. Pertanto la prostituta era una donna che fin dalla più tenera età era stata allevata ed educata con un unico scopo: piacere ai maschi e farli godere, accontentandosi per la sua prestazione anche di “un tozzo di pane” (Pr 6,16).

Scena scabrosa
La donna non sembra far caso allo scandalo dei commensali e al loro disgusto e, postasi dietro Gesù, “presso i suoi piedi, piangendo, con le lacrime cominciò a bagnare i piedi e con i capelli del capo li asciugava e baciava insistentemente i piedi e li ungeva con l’unguento” (Lc 7,38).
La scena è scabrosa e l’evangelista insiste volutamente su quelli che agli occhi dei pii farisei non potevano che figurare come atti imbarazzanti oltre che indecenti.
Le donne, quelle oneste, dalla pubertà avevano sempre il capo velato. Solo il giorno delle nozze la moglie era autorizzata a mostrare le sue chiome. Per il resto della sua vita non mostrava mai i capelli, neanche in casa[8], e il marito poteva ripudiare, senza l’obbligo di versarle la somma concordata nel contratto matrimoniale per tale evenienza, la moglie che s’azzardava a uscire senza velo[9]. Sciogliersi i capelli davanti agli uomini era ritenuto tanto sconveniente che era motivo sufficiente per ripudiare la moglie[10].
Per questi motivi i capelli erano considerati un’arma irresistibile dalla forte carica erotica, come dimostra l’episodio di Giuditta che “spartì i capelli del capo” (Gdt 10,3), sedusse Oloferne e gli fece perdere la testa (in tutti i sensi). Sono solo le prostitute che sfoggiano le chiome per adescare i clienti. E questa non solo esibisce impunemente i capelli, ma li adopera per asciugare i piedi di Gesù dopo averli unti con l’unguento. Inoltre, scrive l’evangelista, costei baciava insistentemente[11] i piedi di Gesù, e per ben tre volte Luca menziona l’oggetto dell’azione della prostituta: i piedi, parte del corpo ad alto contenuto erotico, in quanto nella Bibbia sono un eufemismo adoperato per indicare gli organi genitali (Es 4,25; Is 6,2; 7,20).
Per quanto la scena sia scabrosa e imbarazzante, Gesù non reagisce, lascia fare.
Eppure lasciarsi anche solo sfiorare da una di quelle rende l’uomo impuro e inabile al rapporto con Dio. I rabbini prescrivevano che da una prostituta occorreva stare distanti almeno due metri.
Come mai Gesù non si ritrae?
Perché non la rimprovera?
Il Signore, che “non guarda le apparenze ma il cuore” (1 Sam 16,7), accetta il gesto della donna, che vuole esprimere la sua riconoscenza, nell’unico modo che conosce, usando tutto l’armamentario di cui dispone: capelli, bocca[12], profumo e mani esperte nel massaggiare. La riconoscenza espressa dalla donna ha lo scopo di ringraziarlo di un perdono che sa già di avere ottenuto da quel Padre che Gesù ha annunciato “benevolo verso gl’ingrati e i malvagi” (Lc 6,35).
Se Gesù non reagisce ci pensa il fariseo che l’aveva invitato.
Devoti a un Dio giudice, i farisei si ritengono superiori agli altri uomini e in diritto di giudicarli in base ai loro parametri religiosi[13]. Essi sanno chi è accetto a Dio e chi no. Per questo il fariseo commenta indignato e scandalizzato: “Questo se fosse un profeta conoscerebbe chi e che razza di donna è quella che lo tocca, perché è una peccatrice” (Lc 7,39).
Per il fariseo quindi è evidente che Gesù, che evita di nominare e al quale si riferisce con evidente disprezzo (“questo…”), non è un profeta, altrimenti non permetterebbe a una prostituta di provocarlo[14]. Del resto come era stato possibile scambiare per uomo di Dio quel Gesù definito “un ghiottone e gran bevitore amico di pubblicani e peccatori” (Lc 7,34)?
Nell’episodio appena citato si scontrano due visioni: quella del fariseo, abituato a giudicare in base ai criteri religiosi e quella di Gesù, manifestazione visibile dell’amore del Padre, che non è venuto per giudicare, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc 19,10).
“Reagendo Gesù gli disse: Simone ho da dirti qualcosa” (Lc 7,40). L’evangelista intende contrapporre due punti di vista differenti: Il fariseo non ha visto una donna, ma una peccatrice. Gesù non vede un fariseo, ma un uomo, Simone (unica volta che nel vangelo di Luca un fariseo viene presentato col suo nome).
Gesù espone al fariseo una brevissima parabola: “Un certo creditore aveva due debitori. Uno gli doveva cinquecento denari e l’altro cinquanta[15]. Non avendo essi da restituire graziò entrambi. Chi dunque di loro lo amerà di più?” (Lc 7,41-42).
Nei due debitori Gesù raffigura la peccatrice e il fariseo, colui che ha poco da farsi perdonare e colei che ha tanto. Anziché adoperare il verbo condonare o perdonare, l’evangelista adopera graziare[16], usato solo in questo episodio e per la restituzione della vista ai ciechi (“e ai molti ciechi donò[17] di vedere”, Lc 7,21). Il creditore non si è limitato a cancellare il debito, ma è andato oltre: ha fatto un dono, un dono che non nasce dai meriti del debitore, ma dalla generosità del creditore.
Scopo della breve parabola è di far riflettere il fariseo sulla sua situazione personale, senza che egli ne abbia coscienza: la parabola presenta la sua storia, ma Gesù la racconta come se si trattasse di un'altra persona. Il giudizio che Simone deve dare è il giudizio su se stesso. Infatti il fariseo risponde di malavoglia: “Suppongo che sia colui al quale ha graziato di più” (Lc 7,43).
Il fariseo che pretendeva di fare da maestro a Gesù è trattato dal Signore come un allievo, al quale pone le domande e dà pure il voto: “Hai giudicato bene” (Lc 7,43).
Poi Gesù si volta verso la donna e chiede a Simone: “Vedi questa donna qui?” (Lc 7,44). Al fariseo, che non ha visto una donna, ma una peccatrice (Lc 7,39), Gesù corregge lo sguardo e invita Simone ad avere lo stesso sguardo di Dio, che non giudica gli uomini secondo il loro comportamento religioso o morale, ma vede il cuore.
Al fariseo, che per il suo stile di vita pio e devoto si sente superiore e distante dalla peccatrice, Gesù fa presente quanto il comportamento della donna sia stato migliore del suo: “Entrando in casa tua non mi hai dato l’acqua per i piedi. Lei invece con le lacrime ha bagnato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati. Un bacio non mi ha dai dato. Lei invece da quando sono entrato non ha smesso di baciarmi i piedi. Olio sulla testa non mi hai cosparso. Lei invece con profumo ha unto i miei piedi” (Lc 7,44-46).

Gesù ha opposto tre gesti d’amore riconoscente della donna a tre mancanze d’accoglienza da parte del fariseo.
La prima delle azioni che Gesù rimprovera a Simone di non aver compiuto, è la più usuale, quella alla quale ogni ospite aveva diritto: ricevere l’acqua per lavare i piedi. La mancanza di questa indispensabile offerta denota l’atteggiamento ostile del fariseo nei confronti di Gesù, che viene ricevuto in casa ma non ospitato. La peccatrice invece ha lavato i piedi di Gesù non con dell’acqua esterna, ma con le sue lacrime, sgorgate dal suo amore riconoscente.
La seconda mancanza del fariseo è di non aver baciato il suo ospite: il bacio era considerato un segno di benvenuto. Al fariseo, il puro per eccellenza, che intende mantenere le distanze dal discusso Galileo, amico di pubblicani e di peccatori, Gesù indica l’atteggiamento della donna che sta ancora baciandogli i piedi, esprimendo un’incontenibile gratitudine.
Segno di onore e di consapevolezza dell’importanza dell’ospite, era l’olio profumato[18]. L’onore che il fariseo non ha reso a Gesù, gli è stato reso dalla donna.
A questo punto Gesù emette una sentenza simile a quella della parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Nella parabola Dio ignora le inutili preghiere del pio fariseo e dirige tutto il suo amore sull’impuro pubblicano che “non osava alzare nemmeno gli occhi al cielo” (Lc 18,13). Tra il pio fariseo e il peccatore il Signore sceglie quest’ultimo (“Questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua in pace con Dio”, Lc 18,14), perché Dio non guarda i meriti degli uomini ma i loro bisogni: “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (Lc 5,31).
Gesù si rivolge in maniera severa al fariseo, dicendo: “Per questo motivo ti dico: A lei sono condonati i peccati anche se molti, perché ha amato molto. Colui al quale poco è condonato (almeno) un poco ama” (Lc 7,47).
Sia la peccatrice sia il fariseo sono già perdonati dal Signore.
Solo la donna ne è cosciente e lo dimostra. Il perdono offerto a Simone non ha provocato il suo amore. È questo il rimprovero di Gesù al fariseo: anche se lui, nella sua perfezione, pensa di aver poco da farsi perdonare, potrebbe dimostrare un minimo d’amore.
Poi Gesù si rivolge alla donna con un’affermazione che susciterà i commenti malevoli degli altri invitati: “Disse poi a lei: ti sono condonati i peccati” (Lc 7,48). Gesù conferma che la peccatrice non ha ottenuto il perdono a causa dell’amore che ha dimostrato, ma che ha dimostrato questo amore a causa del perdono già ricevuto.

La bestemmia del Cristo
I commensali sono scandalizzati, “e cominciarono a dire tra di loro: Chi è questo che condona anche i peccati?” (Lc 7,49). Come Simone, anche costoro evitano di nominare Gesù e si riferiscono a lui con un termine volutamente dispregiativo (questo).
Come fa Gesù a perdonare una peccatrice che non ha ottemperato a nessuno degli obblighi prescritti per ottenere il perdono dei peccati?
La domanda che i commensali si pongono si collega al commento negativo che già scribi e farisei avevano espresso sull’operato di Gesù: “Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere peccati, se non Dio soltanto?” (Lc 5,21). Gesù sta usurpando il ruolo di Dio, l’unico che ha il potere di perdonare i peccati, pertanto è un bestemmiatore e come tale meritevole della pena di morte. Gesù non si cura dei commenti malevoli e continua a parlare alla donna: “Ma egli disse alla donna: la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace” (Lc 7,50).
Quel che agli occhi dei religiosi farisei era una trasgressione e un incitamento al peccato, per Gesù non è altro che una riconoscente manifestazione di fede.

Mentre il fariseo ha visto morte (peccato) in quella che era un’espressione di vita (fede), Gesù vede la vita là dove sembra sia peccato.

Gesù non invita la donna a “non peccare più”, come ha fatto per l’adultera (Gv 8,11), e non le chiede neanche di cambiare mestiere, perché a una donna del genere non è possibile.

Non può trovare un marito, perché nessuno sposerebbe una prostituta, non può tornare in famiglia (se mai l’ha avuta), ma può entrare nella comunità del regno. È quel che sembra suggerire l’evangelista, che subito dopo aggiunge che si erano unite al gruppo di Gesù “alcune donne che erano state guarite da spiriti maligni e da infermità” (Lc 8,2).

Mentre i farisei si lamentano che il regno di Dio tarda a manifestarsi a causa dei peccati delle prostitute e dei pubblicani, Gesù li avverte che proprio i pubblicani e le prostitute hanno preso il loro posto nel regno (“In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio”, Mt 21,31).

Il regno atteso da questi religiosi era riservato a pochi privilegiati, che potevano presentare una condotta immacolata: i “giusti” che vi entravano per i propri meriti. Il regno inaugurato da Gesù è la sfera dell’amore del Padre, dove non si entra per i propri sforzi, ma per la misericordia di quel “Dio che ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia” (Rm 11,32).

Gesù si rivolgerà con le identiche parole anche a un’altra figura femminile considerata impura: la “donna che da dodici anni soffriva di emorragia e che nessuno era riuscito a guarire” (Lc 8,43).
Una donna colpita da questa infermità viene considerata immonda ed equiparata a una lebbrosa[19]: non può né avvicinare né essere avvicinata, se sposata, non può avere rapporti col marito e se nubile, non può sposarsi. Per la sua situazione la religione la condanna alla sterilità. L'inarrestabile flusso del sangue la porta alla morte.
La Legge di Dio le impedisce di toccare chiunque, ma il desiderio della vita è più forte di ogni tabù morale e religioso. Se continua a osservare la Legge non commetterà peccato, ma morirà; se prova a trasgredirla, ha una speranza di vita.
La donna s’intrufola tra la folla che segue Gesù e una volta alle sue spalle, sperando che nessuno se ne accorga, gli tocca il mantello “e immediatamente l’emorragia si arrestò” (Lc 8,44).
Ma il suo gesto ha trasmesso la sua impurità a Gesù, che ora è infetto a sua volta. Ebbene, Gesù anziché rimproverare la donna che lo ha reso impuro, la loda: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace” (Lc 8,48)[20]. Ancora una volta quel che agli occhi della religione è apparso come un sacrilegio, per Gesù non è stato altro che un'espressione di fede.

Note
[1] “Dio nessuno lo ha mai visto: l’unico Figlio, che è Dio ed è in seno al Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18).
[2] “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36).
[3] Per religione s’intende quell’insieme di atteggiamenti che gli uomini hanno nei confronti della divinità per ottenerne i favori, il perdono e la benevolenza, ovvero tutto quel che l’uomo deve fare per Dio, visto come traguardo ultimo della propria esistenza.
[4] “I farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie e di oggetti di rame” (Mt 7,3-4); “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto…” (Mt 23,25).
[5] Il desiderio di assicurarsi la redenzione della peccatrice portò in passato a identificare erroneamente questa prostituta in Maria di Magdala (“La Maddalena”), donna che non ha nulla a che vedere col personaggio di Luca, ma che, posta da Giovanni presso la croce di Gesù (Gv 19,25), ha portato la tradizione a vedere in lei la Maddalena pentita, con sollievo di benpensanti e moralisti. Fu un papa, Gregorio Magno (590-604), che nelle sue “Omelie sul Vangelo” fuse in un unico personaggio tre donne differenti: la peccatrice di Luca, Maria di Betània (sorella di Lazzaro) e Maria di Magdala.
[6] Baba Batra B. 16
[7] “Nessuno ebbe pietà di te… ma come una cosa ripugnante fosti gettata via in aperta campagna il giorno della tua nascita” (Ez 16,5).
[8] “Mai le travi della mia casa videro le trecce dei miei capelli”. Così rispose la madre di sette figli, tutti sommi sacerdoti, a chi le chiedeva come aveva potuto avere tanto onore (Yoma B. 47°).
[9] Ketubot M. 7,6.
[10] Tosefta Sota 5,9.
[11] Luca usa il verbo kataphileô, che denota insistenza, permanenza, anziché il più comune phileô (baciare).
[12] “Con le lusinghe delle sue labbra lo seduce” (Pr 7,21).
[13] “Il fariseo, stando in piedi, pregava così fra sé: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano…” (Lc 18,11).
[14] Il verbo “toccare” (gr. aptô), usato dal fariseo per descrivere l’azione della donna, ha una forte carica erotica ed ha il significato di palpare, tastare. Lo stesso verbo viene adoperato per indicare i rapporti sessuali: “È cosa buona per l’uomo non toccare [mê aptesthai] donna” (1 Cor 7,1).
[15] La paga di un operaio era di un denaro il giorno.
[16] Gr. charizomai.
[17] Gr. echarisato.
[18] Cf Sal 23,5; 133,2.
[19] Zabim 5,1.6
[20] Nella versione di Matteo Gesù addirittura la incoraggia (“Coraggio”, Mt 9,22).

3 commenti:

Gianni Camerino ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Gianni Camerino ha detto...

Sono stanco e un pò imbranato ma forse riesco a pubblicare il link del sito htt://www.studibiblici.it Deo grazias!!!

Steve ha detto...

Grazie gianni di quello che hai postato... lungo ma ottimo!

Grazie di cuore!

Stefano